Osteoporosi

A cura del dott. Roberto Bortolotti
Direttore U.O.C. Reumatologia Ospedale Santa Chiara – Trento

Definizione

L’osteoporosi è una malattia che inizia in maniera silente nell’età adulta e che si manifesta in genere dopo i 50 anni, maggiormente nell’età senile. È determinata da una riduzione della massa ossea (essenzialmente sali di calcio) con una alterazione anche della sua architettura per cui l’osso diventa fragile con un alto rischio di frattura. Questa complicanza può interessare tutte le ossa. Polso, vertebre e femore risultano le sedi più colpite.

Epidemiologia

È una malattia prevalentemente “femminile” o tutti possono ammalarsi? Tutte le persone che invecchiano perdono osso anche se alcune più velocemente di altre e quindi sono a rischio di sviluppare la malattia. La donne sono più svantaggiate rispetto agli uomini in quanto posseggono una quantità di osso minore e, in genere, vanno incontro ad un periodo più protratto di perdita di massa scheletrica. Per la donna si può dire che l’incidenza della malattia passa dal 14% tra i 50 e 59 anni al 70% dopo gli 80 anni. Una donna su 2 ed un uomo su 8 sopra i 50 anni avranno una frattura da fragilità nella restante vita. I tassi di incidenza della frattura del femore aumentano esponenzialmente dai 65 anni in poi, raddoppiandosi all’incirca ogni 5 anni di età fino ad interessare 2-4 donne ogni 100 oltre gli 85 anni. In questo tipo di frattura le femmine sono colpite in misura all’incirca doppia rispetto all’uomo. In Italia, ogni anno, si verificano circa 250.000 fratture da osteoporosi di cui oltre 80.000 di femore. Con il progressivo invecchiamento della popolazione, in particolare di quella italiana che è tra le più anziane, è da attendersi un incremento esponenziale delle fratture di femore. Si stima che i cambiamenti demografici dei prossimi anni comporteranno un aumentato numero di fratture del femore nel mondo da 1.66 milioni del 1990 ai 6.26 milioni del 2050.

Patogenesi

Perché compare la malattia? L’eccessiva perdita di massa ossea che caratterizza la malattia è il risultato di una alterazione nel normale ciclo di rimodellamento dell’osso. Il ciclo, in sostanza, consiste nel riassorbimento di osso “vecchio” da parte di un tipo di cellule (osteoclasti) cui segue la deposizione di nuova matrice ossea e successiva mineralizzazione da parte di altre cellule (osteoblasti). Quando questo bilancio diviene negativo, cioè non viene sostituito tutto il materiale riassorbito, e il numero di cicli diviene elevato si viene a creare una eccessiva perdita di osso. Questo può accadere quando viene meno l’azione protettiva degli ormoni sessuali e quindi, nella donna, ciò si verifica tipicamente dopo la menopausa. Altre volte altri ormoni o sostanze possono influire negativamente sul bilancio osseo. Questo si verifica, per esempio, in caso di eccesso di ormone tiroideo, di cortisolo, di paratormone. Una causa frequente di osteoporosi è quella legata all’uso eccessivo e protratto di farmaci antinfiammatori cortisonici.

Manifestazioni cliniche

Il dolore rappresenta il sintomo principale. Di solito esordisce in maniera brusca ed intensa tanto da determinare una importante limitazione funzionale, dopo un trauma od uno sforzo di minima entità (sollevare pesi, chinarsi). La sede più spesso riferita è il rachide al tratto dorso lombare e la causa del dolore sono le fratture o microfratture vertebrali. Tale dolore può essere molto intenso e rendere difficili i movimenti della colonna. Può durare anche alcuni mesi ed è alleviato, in parte, dal riposo a letto. Successivamente può permanere un dolore di minore intensità legato al sovraccarico di alcune strutture osteoarticolari (legamenti, dischi intervertebrali) e alla distensione o contrattura delle componenti muscolari. Con il tempo, e in caso di ripetuti episodi fratturativi, si accentua la curvatura del dorso (cifosi dorsale) che comporta una modifica della gabbia ossea toracica con ridotta espansione toracica e quindi possibili disturbi respiratori. Il dolore nei casi più gravi può originare anche dal contatto dell’arcata costale sull’osso iliaco del bacino. Si assiste ad un progressivo calo della statura, per riduzione di altezza della cavità addominale l’addome può apparire globoso e protruso con conseguenze sulla canalizzazione intestinale e disturbi intestinali (ernia dello hiatus, dispepsia, rigurgiti, stipsi). È importante ricordare tuttavia che le fratture vertebrali sono eventi ampiamente sottostimati. Questo accade perché da una parte la maggioranza delle deformità vertebrali in corso di osteoporosi non comportano una sicura emergenza sul piano dei sintomi e dall’altra è possibile che molte fratture vertebrali, che comportano dolore, possano sfuggire ad una diagnosi corretta e venir confuse con affezioni dolorose come la spondiloartrosi o forme miofasciali. Probabilmente la ragione principale che spiega la maggior parte degli effetti negativi delle fratture vertebrali sulla qualità di vita dei pazienti con osteoporosi risiede nel fatto che nella maggioranza dei casi la frattura vertebrale non rimane un evento isolato, ma incide nella realtà clinica sotto forma di fratture vertebrali multiple. Il ripetersi di eventi fratturativi nella storia naturale dell’osteoporosi è infatti un evento ben documentato ed è di grande rilevanza il fatto che il principale fattore di rischio per una nuova frattura vertebrale, e in generale per una frattura da osteoporosi, è il fatto di avere già presentato una frattura in precedenza. Una tipica sede di frattura da osteoporosi è quella del polso (fratture di Colles) che si determina per un trauma da caduta nel tentativo di proteggersi portando le braccia in avanti. Tale frattura impone l’applicazione di apparecchio gessato e talora prolungata immobilizzazione cui deve seguire spesso della riabilitazione al fine di recuperare appieno la funzionalità del braccio.

Frattura del femore

La più importante e temuta è la frattura del femore perché presenta una mortalità stimabile in circa il 5% in fase acuta e del 15-25% entro un anno. La disabilità deambulatoria è permanente nel 20% dei casi e solo il 30-40% riacquista autonomia compatibile con le precedenti attività della vita quotidiana. La frattura della estremità prossimale del femore nella maggior parte dei casi è dovuta a caduta, anche banale, dalla stazione eretta e, molto raramente, avviene spontaneamente quando le condizioni dell’osso sono gravemente compromesse. È sempre necessario il ricovero in ospedale e il trattamento chirurgico. L’ospedalizzazione comporta nei pazienti, soprattutto se molto anziani, il rischio di gravi complicanze quali infezioni broncopolmonari, piaghe da decubito e sindrome ipocinetica. I costi sociali di una frattura di femore sono rilevanti. Si stima che i costi totali (diretti per ricovero in ospedale ed indiretti) delle fratture femorali in Italia in soggetti ultrasessantacinquenni possano superare un miliardo di euro.

Diagnosi

Quali esami vengono effettuati per scoprire la malattia? L’approccio diagnostico alla malattia deve prevedere inizialmente un esame clinico che comprende una raccolta anamnestica accurata ed un esame obiettivo sistematico. È così possibile distinguere la sintomatologia dolorosa ossea da quella articolare e quindi orientare correttamente la diagnosi. Gli esami ematici consigliati cosiddetti di primo livello (emocromo, VES, profilo porteico, calcemia, ALP, calciuria), consentono in genere di riconoscere una forma cosiddetta primaria, ove i risultati degli esami sono nella norma, da una forma secondaria nel caso che sia presente un’altra malattia che determini il deterioramento del tessuto osseo. Nella grande maggioranza dei casi di osteoporosi gli esami ematici risultano normali.

Esami radiologici

Nella fase conclamata l’esame radiologico dello scheletro, oltre alla presenza di fratture, mostra una diffusa radiotrasparenza delle strutture ossee, particolarmente evidente a livello delle vertebre. Peraltro l’esame radiologico è in grado di evidenziare una condizione di demineralizzazione soltanto quando la massa ossea si riduce di almeno un terzo. La patogenesi della frattura osteoporotica è strettamente correlata alla bassa densità ossea che determina una riduzione della resistenza dell’osso essendo essa proporzionata alla massa ossea.

Fratture vertebrali

A seconda della deformazione, le fratture vertebrali si definiscono a lente biconcava per cedimento della zona centrale (vertebre di pesce), appiattite per il cedimento globale del corpo vertebrale, oppure schiacciate a cuneo per cedimento della loro parte anteriore. Le fratture più frequenti sono quelle da collasso dei corpi vertebrali della regione dorso-lombare, interessanti la regione anteriore dei corpi vertebrali e tali da provocare deformazione scheletrica e conseguente riduzione della statura, così quella caratteristica deformità della malattia nota come cifosi dorsale a grande arco. Le piccole deformazioni di un corpo vertebrale, spesso asintomatiche, sono difficili da rilevare e per ovviare alla variabilità dei controlli nel decorso della malattia sono state sviluppate tecniche sia semi quantitative che quantitative al fine di individuare con precisione le deformazioni dei corpi vertebrali e monitorarle nel tempo. In un corpo vertebrale si prendono a riferimento le altezze relative alla parte anteriore, centrale e posteriore. Quando una delle altezze misurate risulta inferiore di almeno il 20% rispetto al valore di riferimento, la deformità vertebrale evidenziata è compatibile con una avvenuta frattura. Occorre tuttavia ricordare che non tutte le deformazioni vertebrali sono causate da osteoporosi e quindi l’analisi morfologica deve sempre essere integrata da dati clinici.

Mineralometria ossea computerizzata

Una stima della massa ossea, e quindi della resistenza dell’osso, viene effettuata attraverso la misurazione della quantità minerale o densità. È la mineralometria ossea computerizzata (MOC) o densitometria ossea. Si tratta di un esame semplice di tipo radiologico effettuato mediante una speciale apparecchiatura che stima la quantità minerale in uno o più siti scheletrici utilizzando una bassa quantità di radiazioni. La densitometria a raggi X (DXA) rappresenta la tecnica più diffusa e più usata per la misurazione della BMD; essa permette di misurare vari siti scheletrici (rachide lombare, tratto prossimale del femore, radio distale e ultradistale, e infine su tutto lo scheletro) con sufficiente accuratezza e precisione: è così possibile ottenere misure precise sul contenuto minerale delle componenti trabecolare e corticale del tessuto osseo. La densità ossea (BMD) viene misurata come valore assoluto (g/cm2 o g/cm3) e come T- o Z-score, dove per T-score si intende il numero di deviazioni standard dal valore medio di soggetti giovani, al picco di massa ossea (circa 30 anni), mentre lo Z score fa riferimento al numero delle deviazioni standard dal valore medio del soggetto di pari sesso ed età. L’O.M.S. ha definito come osteoporosi il valore di T-score <2,5 SD, valore che identifica come osteoporotiche il 1 5 – 20 % delle donne in menopausa di età superiore ai 50 anni. Secondo la Consensus Conference del 1994 la Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito i seguenti criteri diagnostici della malattia in base ai valori densitometrici:
  • normale se T score -1 o maggiore
  • osteopenia se T score compreso tra -1 e -2.5
  • osteoporosi se T score minore di -2.5
  • osteoporosi conclamata se T score minore di -2.5 + frattura.
L’esame è indicato in condizioni come:
  • ipogonadismo o menopausa precoce (<45 anni)
  • in previsione di prolungati (> 3 mesi) trattamenti corticosteroidei (> 5 mg/die di prednisone equivalenti)
  • in soggetti con anamnesi familiare positiva per fratture da fragilità (femore, vertebrali o del polso < 75 anni)
  • basso peso corporeo (< 57 Kg o indice di massa corporea < 19 Kg/m2)
  • in caso di riscontro radiologico di osteoporosi
  • in malattie associate ad osteoporosi (malattie endocrine come iperparatiroidismo, ipertiroidismo etc., malattie reumatiche come artrite reumatoide etc.
  • precedenti fratture da fragilità
nelle donne oltre i 65 anni di età e associati fattori di rischio (familiarità, fumo, eccesso alcolico, basso apporto di calcio con la dieta). L’esame densitometrico trova indicazione anche nel follow up della malattia per documentare una variazione della massa minerale e quindi anche l’effetto del trattamento. In questo caso occorre ricordare che le modifiche evidenziabili, tenuto conto del metabolismo dell’osso e dell’errore di precisione dello strumento, devono superare almeno il 3-4% del precedente valore di riferimento. Questo significa che non è possibile avere la certezza del cambiamento reale del risultato dell’esame densitometrico se non dopo un congruo periodo di tempo che in genere è superiore ai 18 mesi.

Densitometria ossea

La densitometria ossea ha una discreta specificità, per cui il rischio di frattura è senza dubbio elevato in pazienti con bassi valori di BMD. È stato dimostrato che una percentuale elevata di fratture (circa il 55%) si verifica anche nei soggetti classificati a basso rischio dall’esame densitometrico, e questo giustifica la scarsa sensibilità della metodica. Tuttavia, riteniamo opportuno sottolineare che la predittività della BMD per il rischio di frattura è considerevolmente superiore a quello dell’ipercolesterolemia e dell’ipertensione per quanto riguarda i rischi di infarto miocardico e ictus cerebrale. L’errore predittivo della densitometria ossea è legato al fatto che esistono altri fattori di rischio di frattura indipendenti dalla BMD, come ad esempio l’età, per cui, mentre per un T-score compreso tra -2,5 e -3,0 l’incidenza annua di frattura è trascurabile in una donna di 55 anni, esso diventa 5 volte maggiore in una donna di 75 anni. Si è osservato che il rischio di frattura nelle sedi cliniche più rilevanti sia meglio previsto dalla valutazione densitometrica dello stesso sito tuttavia la valutazione di un distretto è predittiva di frattura anche di altre sedi scheletriche. Ecco perché la misurazione di una sede periferica come il polso o le falangi, o il calcagno è comunque predittiva anche di frattura assiale. La misurazione densitometrica della colonna lombare è preferita nel primo periodo della età post menopausale perché è un sito precocemente interessato dalla malattia. L’accuratezza della misurazione si riduce in presenza di artrosi e di calcificazioni extrascheletriche. Per questo la densitometria femorale in età senile può essere più accurata e clinicamente più utile perché la più predittiva del rischio di frattura più temuto.

Ultrasonografia ossea

In alcuni casi è possibile inoltre avere una misura della massa ossea con strumenti ad ultrasuoni. Le caratteristiche essenziali della ultrasonografia ossea sono l’assenza di radiazioni, la facilità di esecuzione dell’esame, la trasportabilità e il basso costo. Molto interesse per questo tipo di tecnica è derivato dalla possibilità di ottenere informazioni anche sulla struttura ossea. Tra i siti anatomici, che devono sempre rispondere a caratteristiche quali la facilità di accesso e la scarsa presenza di tessuti molli, quello maggiormente studiato è il calcagno che, essendo composto prevalentemente da osso trabecolare, e sottoposto allo stesso carico a cui è sottoposta la colonna vertebrale, costituisce un’ottima sede per lo studio ultrasonografico. Altri siti scheletrici comunemente impiegati sono la falange, la tibia, il radio. I parametri ultrasonografici comunemente utilizzati per lo studio dell’osso sono la velocità e l’attenuazione. La velocità di trasmissione del fascio ultrasonografico è direttamente proporzionale alla densità dell’osso mentre l’attenuazione esprime la perdita di energia dell’onda che avviene in modo diverso secondo i vari tessuti attraversati. Per quanto riguarda le correlazioni tra parametri ultrasonografici e tradizionali metodiche densitometriche, pur risultando sempre significative, i risultati non hanno mai raggiunto valori elevati, ad indicare probabilmente che l’ultrasonografia esprime caratteristiche diverse dell’osso. È stato tuttavia ampiamente dimostrato che i parametri ultrasonografici sono in grado di predire in modo indipendente dalla BMD il rischio di frattura osteoporotica sia vertebrale che femorale nella popolazione femminile, anche se in misura inferiore rispetto alle tradizionali metodiche densitometriche, e come l’uso combinato di tecniche densitometriche e ultrasonografiche possa aumentare la predizione del rischio di frattura. Per il monitoraggio dell’effetto dei farmaci sulla densità ossea rimane di prima scelta il rilievo densitometrico a raggi X (DXA). L’utilizzo principale della densitometria ad ultrasuoni è quello di pre screening per selezionare i soggetti maggiormente a rischio che potranno poi essere sottoposti ad ulteriori accertamenti. E’ una metodica inoltre che è in grado di predire il rischio di frattura e quindi integra con grande peso la stima complessiva della malattia con complicanze.

Prevenzione

Quali misure possiamo adottare per prevenire l’osteoporosi? Diversi interventi non farmacologici possono ridurre il rischio di osteoporosi attraverso un aumento del picco di massa ossea, ossia del massimo contenuto minerale scheletrico, e una riduzione della perdita associata all’età. La crescita dello scheletro si completa intorno ai 20-30 anni, dopo di che comincia, in entrambi i sessi, la perdita di massa ossea, che nelle donne viene accelerata dalla menopausa. I fattori nutrizionali, in particolare il calcio e la vitamina D e l’esercizio fisico hanno molteplici effetti, influenzando il picco di massa ossea, la perdita ossea associata all’età e la forza muscolare. Una buona nutrizione, in termini di dieta bilanciata ed adeguato apporto calorico, è essenziale per una normale crescita e per lo sviluppo di tutti i tessuti, incluso l’osso. Quindi, la valutazione dello stato nutrizionale e un’adeguata anamnesi alimentare sono momenti fondamentali nella valutazione del profilo di rischio per osteoporosi. In Europa. per la fascia di età fra gli 11 e i 17 anni, la dose quotidiana raccomandata (RDI) di calcio varia fra gli 800 mg al giorno per le femmine e i 1.000 mg per i maschi. In Italia. almeno il 70% delle femmine e il 60% dei maschi adolescenti ne assumono dosi inferiori a quelle raccomandate. Nell’adulto, l’introito dovrebbe essere intorno ai 1.000-1.300 mg/die, e solo il 50-60% della popolazione sembra effettivamente rispettare questi suggerimenti. Latte e latticini sono esempi di buone fonti di calcio, ma la biodisponibilità può diminuire a causa di altri costituenti della dieta, che possono ridurne l’assorbimento, quali le fibre, i fitati e i tannini. In caso di dieta variegata ed equilibrata, comunque, tale rischio è irrilevante. Le acque minerali ricche di calcio e con basso contenuto di sodio e nitrati sono una ulteriore fonte alimentare di calcio ben assimilabile. Dobbiamo ricordare, comunque, che la variabilità individuale nell’assorbimento di calcio è molto vasta e influenzata dai livelli di vitamina D.

Vitamina D

La carenza di vitamina D porta al rachitismo nel bambino e all’osteomalacia nell’adulto, entrambe caratterizzate da un difetto di mineralizzazione dell’osso. Una deficienza meno marcata comporta invece un iperparatiroidismo, che risulta in un aumentato turnover e perdita di osso, in assenza di alterazioni della mineralizzazione ma ciò comporta comunque un aumento del rischio di frattura. Durante l’adolescenza, quando il consumo di latte diminuisce, l’introito di vitamina D può essere inadeguato e questo può influenzare negativamente l’assorbimento di calcio. La carenza di vitamina D è molto comune nella popolazione anziana ed è per lo più per ridotto introito, ma in parte anche per diminuito assorbimento intestinale, diminuita sintesi cutanea e ridotta conversione alla forma di vitamina più attiva. Gli anziani, quindi, sono considerati una popolazione a rischio e diversi studi clinici controllati hanno dimostrato che il supplemento di vitamina D tra 400 e 800 IU/die riduce il rischio di frattura ed aumenta gli effetti degli estrogeni sulla densità ossea. Fonti alimentari importanti di vitamina D sono alcuni tipi di pesce (luccio, pesce persico, salmone, sardine e tonno in scatola), alcune carni (fegato, pollo) e le uova. Dal momento che la vitamina D è in gran parte sintetizzata a livello cutaneo sotto l’azione dei raggi ultravioletti particolarmente a rischio sono i soggetti con bassa esposizione al sole come gli anziani che vivono in casa di riposo, affetti da malattie croniche e disabili. Studi retrospettivi hanno evidenziato che individui che hanno assunto regolarmente latte durante l’infanzia presentino da adulti una massa ossea maggiore rispetto a coloro che non hanno seguito questo costume di vita. Questa prospettiva è ancora più rilevante se si considera che a livello di popolazione generale un aumento del 10% del picco di massa ossea potrebbe dimezzare il rischio di frattura durante la vita adulta. In vari studi di intervento in donne in età post menopausale e anziani si è dimostrato come la supplementazione di calcio e vitamina D fosse in grado di rallentare la velocità di perdita ossea ed anche di ridurre l’incidenza di fratture.

Alimentazione

Un introito adeguato di proteine nella dieta è essenziale per la salute delle ossa. Un deficit proteico è dannoso per l’acquisizione di massa ossea sia nell’infanzia che nella adolescenza oltre che per la conservazione della densità ossea nei soggetti in età avanzata. D’altra parte, diete iperproteiche possono favorire la perdita di calcio con le urine. Una dieta povera di proteine è frequente nell’anziano ed appare essere ancora più deficitaria in soggetti con fratture femorali rispetto alla popolazione generale di età avanzata. La malnutrizione proteica compromette la massa e la forza muscolare con conseguente minore stabilità e maggior rischio di caduta. Un uso eccessivo di bevande alcoliche ha mostrato un maggior rischio di malattia e di fratture sia per una ridotta funzione anabolica dell’osso che in relazione ad un aumentato rischio di caduta. Un elevato introito di sodio (sale) promuove l’escrezione renale di calcio ed è pertanto considerato un fattore di rischio per l’osteoporosi. La caffeina è stata pure implicata nello sviluppo di questa malattia ma senza nessuna prova convincente. L’effetto del fumo, infine, è multifattoriale ed include il peso inferiore tra i fumatori, un effetto di inibizione diretto sugli osteoblasti e, nelle donne, una menopausa precoce. Si è evidenziato infatti che il fumo aumenta il rischio di frattura nell’arco della vita di una donna di circa il 50%.

Stili di vita

Tra i fattori legati allo stile di vita il più importante nel determinare la densità ossea è l’esercizio fisico. Innanzitutto, una regolare attività fisica che comporti sia lavoro dell’osso contro la forza di gravità, sia contrazione muscolare è fondamentale per la salute dell’osso, come è stato dimostrato dall’osteopenia degli astronauti dopo una prolungata assenza di peso. L’attività fisica regolare ha numerosi effetti positivi per individui di tutte le età, ma l’impatto più significativo si ha se cominciata prima della pubertà. Uno studio ha addirittura dimostrato un effetto più marcato dell’esercizio fisico che dell’introito di calcio sullo sviluppo della massa ossea in pubertà, ma diversi studi concordano nel sostenere un loro effetto additivo. Anche se l’esercizio fisico non fa direttamente aumentare la massa ossea negli adulti, vari studi dimostrano che le persone che lo praticano regolarmente (passeggiate, corse, ballo, giardinaggio) hanno un rischio dimezzato di frattura di femore rispetto a persone poco attive. In due studi epidemiologici europei (MEDOS ed EPOS) è stato dimostrato che l’abitudine a compiere regolari passeggiate nelle donne adulte e anziane è associata ad una riduzione di fratture vertebrali e del femore. Un problema metodologico che può, però, influenzare i risultati di questi studi è legato al fatto di essere studi trasversali e, quindi, soggetti ai problemi di selezione del campione, mentre studi longitudinali sono necessari per dimostrare definitivamente l’effetto dell’attività fisica sulla densità ossea. Diverse meta-analisi che valutano l’effetto dell’esercizio sulla perdita ossea in menopausa hanno dimostrato un significativo effetto dell’esercizio fisico moderato sulla densità ossea a livello vertebrale, mentre risultati dubbi sono riportati per la densità a livello femorale e radiale. Un aumento tra il 2.5% ed il 5% nella densità minerale ossea è stata evidenziato in donne in menopausa usualmente sedentarie, dopo 7-9 mesi di esercizio fisico di 2-3 ore ogni settimana, ma tutto il beneficio veniva perso in coloro che interrompevano il programma. Come nei giovani, c’è evidenza di un effetto additivo dell’esercizio e del calcio sulla massa ossea nelle donne in menopausa. Nelle persone anziane, in cui la sedentarietà è spesso associata a malattie, l’esercizio fisico vigoroso è controindicato. Tuttavia, programmi di esercizio moderato, che tendano a migliorare l’equilibrio e la forza muscolare sono stati dimostrati significativamente associati ad una riduzione del rischio di cadute e, quindi, di fratture osteoporotiche. Camminare e salire le scale, così come il ballo e il giardinaggio, dovrebbero essere incoraggiati. Anche nell’osteoporosi conclamata l’attività fisica va mantenuta. Tra gli esercizi di rinforzo muscolare vanno privilegiati quelli che impegnano i muscoli estensori del dorso, gli addominali e i glutei con stretching dei muscoli anteriori dell’anca (ileo psoas) ed evitando il carico in flessione del tronco. Questo è indispensabile per favorire e mantenere una corretta postura che prevenga o contrasti la deformità in cifosi dorsale, protrusione addominale e incertezza nella deambulazione. Per ridurre il rischio di caduta occorrerà in certi casi utilizzare degli ausili (bastone, deambulatore) e porre attenzione anche a fattori estrinseci.

Fattori estrinseci di caduta, norme di sicurezza

  • percorsi illuminati anche di notte
  • evitare pavimenti scivolosi
  • usare detergenti per pavimenti senza cera
  • posizionare maniglie di sicurezza in casa
  • utilizzare telefoni senza fili da portare con sé
  • evitare tappeti
  • non utilizzare scarpe o ciabatte scivolose
  • correggere la perdita della vista e dell’udito
  • evitare l’assunzione di bevande alcooliche e sedativi
  • eseguire esercizi per lo sviluppo della forza e della flessibilità
  • indossare scarpe a tacchi bassi
  • evitare di trasportare oggetti pesanti o pericolosi
  • non camminare sul ghiaccio
  • utilizzare bastoni canadesi quando necessario
  • posizionare passamano sulle scale
  • non lasciare oggetti su scale o pavimenti
  • mantenere le scale in buono stato.

Terapia

Oggi disponiamo di numerosi farmaci per la prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi. Tradizionalmente vengono suddivisi in antiriassorbitivi, quando intervengono prevalentemente sull’attività osteoclastica (cellule che riassorbono l’osso) e osteoformativi quando la loro azione determina un aumento del processo di deposizione ossea intervenendo sulle cellule osteoblastiche (cellule che producono matrice ossea). Di seguito verrà riportata una breve sintesi delle maggiori evidenze scientifiche riguardo ai prodotti principali. Calcitonina La calcitonina ha rappresentato il primo farmaco specificamente impiegato nella terapia dell’osteoporosi. È’ stato un farmaco molto usato in passato ora sostanzialmente sostituito da altri farmaci inibitori del riassorbimento osseo che hanno dimostrato una maggior potenza e tollerabilità. Terapia sostitutiva ormonale La brusca riduzione dei livelli estrogenici alla menopausa è considerata il singolo maggiore fattore di rischio per osteoporosi nella donna. L’azione degli estrogeni sullo scheletro è alquanto articolata: si legano a recettori nucleari presenti nelle cellule ossee e la loro azione si estrinseca prevalentemente sugli osteoblasti regolandone la produzione di fattori e citochine che, a loro volta, interferiscono con il numero, l’attività e la durata di vita degli osteoclasti. L’impiego degli estrogeni in postmenopausa era stato considerato negli anni scorsi una buona scelta per controllare, direttamente e indirettamente, le diverse problematiche della salute della donna al termine del periodo fertile. In realtà, ampi studi prospettici di popolazione nei primi anni 2000 evidenziarono che a fronte di un significativo aumento della densità ossea (+3,7% a tre anni) e di una riduzione del 24% per tutte le fratture e del 33% per quelle vertebrali, si assisteva a un significativo aumento del rischio di malattie cardiovascolari, ictus, embolia polmonare e carcinoma mammario invasivo rispetto al placebo. Ne consegue che l’orientamento sull’uso della terapia sostitutiva ormonale è molto conservativo e l’indicazione alla prevenzione e cura delle fratture osteoporotiche nelle donne ultracinquantenni non è più una prima scelta SERM I SERM (Selective Estrogen Receptor Modulators) rappresentano una classe di farmaci in grado di competere con il recettore estrogenico modulandone selettivamente gli effetti. Quelli attualmente utilizzati nella terapia dell’osteoporosi sono il raloxifene ed il basedoxifene. Non hanno effetti a livello endometriale, mantengono azione agonista su osso e fegato ed antagonista a livello mammario. Riducono pertanto il riassorbimento scheletrico con un meccanismo di azione simile all’estrogeno cioè come antiriassorbitivo. Hanno dimostrazione di efficacia sulla riduzione delle fratture vertebrali ma non su quelle femorali o non vertebrali in generale. Gli effetti collaterali sono rappresentati da vampate di calore, crampi agli arti inferiori e trombosi venosa. Bisfosfonati I bisfosfonati sono composti sintetici analoghi del pirofosfato. Si distinguono in base alla costituzione chimica e in particolare per la presenza o meno di un gruppo aminico (aminobisfosfonat) che ne influenza la potenza e anche il meccanismo di azione. I bisfosfonati hanno una alta affinità per le superfici ossee, rimanendo poi conglobati nello scheletro per periodi anche lunghi. Agiscono inibendo il riassorbimento osseo mediante la interferenza sulla attività osteoclastica. Se assunti per os il loro assorbimento è sempre molto scarso e quindi vanno somministrati a digiuno. Per gli aminobisfosfonati l’effetto collaterale più frequente è rappresentato dalla intolleranza gastrica. Per migliorare la tollerabilità esofago gastrica è consigliabile l’assunzione in stazione eretta con un bicchiere colmo di acqua. Di seguito verranno ricordati i principali bisfosfonati utilizzati per la cura dell’osteoporosi. Acido clodronico o clodronato In Italia viene somministrato principalmente per via intramuscolare (fiale da 100-200 mg). L’uso regolare conduce a un lieve aumento di massa ossea e a una riduzione del rischio di frattura vertebrale. Acido alendronico o alendronato Dalla fine degli anni ‘90 sono stati pubblicati numerosi studi che documentano l’efficacia di questo farmaco nel migliorare la massa ossea (aumenti fino a 6-8% al rachide e del 3-6% al femore prossimale dopo tre anni di terapia) e nel ridurre il rischio di frattura di circa il 50% al dosaggio di 70 mg alla settimana. Come per gli altri farmaci antiriassorbitivi, l’effetto sulla massa ossea è maggiore nei primi anni di trattamento. Il suo effetto sull’osso è persistente. Per migliorare il rapporto efficacia/tollerabilità è possibile, dopo almeno cinque anni di trattamento e nelle persone con malattia non grave e stabilizzata, una sospensione della terapia per un periodo variabile di alcuni mesi (drug holiday). Acido risedronico o risedronato Analogamente all’alendronato, aumenta significativamente i valori di massa ossea e riduce il rischio di frattura. Negli studi registrativi l’aumento della massa ossea, con dosaggi medi di 35 mg alla settimana per tre anni, è risultato intorno al 4-5% a livello del rachide lombare e del 2-3% a livello del femore prossimale. La riduzione del rischio di frattura, rispetto ai controlli, si conferma per terapie anche a lungo termine (5-7 anni di durata). In uno studio finalizzato a valutare l’efficacia sulle fratture di femore (studio HIP, 2001) l’assunzione del risedronato ha condotto ad una riduzione dell’incidenza cumulativa di fratture di femore pari al 40% rispetto al placebo nelle donne con ridotta massa ossea, Acido ibandronico o ibandronato Con questo farmaco si è dimostrato che anche la somministrazione intermittente è in grado di agire positivamente sull’osso analogamente ad una somministrazione quotidiana o settimanale. La riduzione della frequenza di somministrazione dei bisfosfonati può migliorare l’aderenza alla terapia. La somministrazione una volta al mese di 150 mg di ibandronato ha mostrato incrementi di massa ossea superiori alla assunzione quotidiana di 2.5 mg. Quest’ultima dose aveva già mostrato efficacia nel ridurre l’incidenza di nuove fratture vertebrali (riduzione del rischio del 62% in tre anni di cura, studio BONE, 2004) Acido zoledronico o zoledronato È l’ultimo nato tra i bisfosfonati ed è anche il più potente. Si somministra per via endovenosa. Pur essendo rapidamente eliminato dalla circolazione sanguigna circa il 40% della dose rimane ancora legata allo scheletro dopo 360 giorni e quindi consente una unica somministrazione annuale nella cura dell’osteoporosi. Il farmaco ha dimostrato di ridurre a 3 anni l’incidenza di nuove fratture da fragilità in tutte le sedi (vertebrale del 70%, al femore del 41%). e quindi, diminuendo gli eventi fratturativi nelle persone anziane, è stato in grado anche di abbassare la mortalità rispetto a placebo (riduzione del 28% nello studio studio HORIZON, 2007). Una singola infusione assicura una compliance massima, permettendo di coprire il fabbisogno di farmaco per l’intero anno Denosumab Dal 2010 è disponibile un nuovo farmaco che riduce la perdita minerale ossea. Appartiene a una nuova classe farmaceutica. Per la prima volta nel campo delle malattie dell’osso si utilizza una molecola di natura proteica (farmaco biotecnologico) anziché di sintesi chimica. Si tratta di un anticorpo monoclonale che diminuisce il riassorbimento osseo inibendo una citochina necessaria al funzionamento degli osteoclasti. Questo nuovo meccanismo di azione permette un effetto più diffuso a livello scheletrico e quindi non solo sulle superfici di rimodellamento osseo come accade con i bisfosfonati. Con questa terapia si sono evidenziati degli aumenti di densità ossea progressivi in tutti i segmenti scheletrici analizzato. Nello studio registrativo in migliaia di donne con osteoporosi post menopausale sottoposte alla cura si è dimostrata, a tre anni dall’inizio, una netta riduzione di incidenza delle nuove fratture vertebrali e non vertebrali (calo fratture vertebrali del 68%, del femore del 40%, studio FREEDOM, 2009). A questo si associa la comodità di uso di una iniezione sottocute ogni 6 mesi. Farmaci anabolici. Teriparatide La reintegrazione del patrimonio scheletrico è considerata un fattore critico riguardo l’efficacia della terapia antiosteoporotica e la ricerca clinica, già da tempo, si è indirizzata verso la possibilità di utilizzo di una terapia anabolica dell’osso ossia in grado di stimolare la crescita della massa ossea anziché di ridurne la perdita Un notevole passo avanti in questa direzione si è compiuto con l’ introduzione del paratormone umano ricombinante e della sua frazione attiva (teriparatide). Si tratta di un ormone normalmente presente nel nostro corpo che interviene nel metabolismo scheletrico. La somministrazione giornaliera, con brevi picchi di assorbimento, per via parenterale (sottocute) influenza attivamente i processi di formazione di nuova matrice ossea. Gli studi hanno mostrato un aumento del volume dell’osso trabecolare. Dopo quasi due anni di terapia si assiste ad importanti variazioni delle densità minerale ossea a livello del rachide lombare (+9-10%) e del femore prossimale (+2,6%) rispetto ai controlli. Tali valori sono risultati più alti rispetto a quelli ottenuti in altri studi con farmaci antiriassorbitivi come i bisfosfonati. In parallelo, è stata rilevata una significativa riduzione del rischio di frattura in particolare per quelle vertebrali. L’effetto tuttavia sembra limitato nel tempo e, in considerazione anche dell’elevato costo del trattamento, questa terapia viene proposta per le forme di osteoporosi più gravi e per un periodo massimo di 2 anni.

Osteoporosi cortisonica

Gli antinfiammatori steroidei o corticosteroidi (CS) sono farmaci impiegati per il trattamento di svariate condizioni cliniche e hanno un ruolo insostituibile nel trattamento di molte malattie. Il loro impiego è diffuso in medicina soprattutto in ambito reumatologico, pneumologico, gastroenterologico, dermatologico, oltre che in ematologia, in neurologia, in oncologia e nelle nuove discipline relative alla trapiantologia. Nonostante questa ampiezza di indicazioni e i vantaggi derivanti dal trattamento, sono ormai definiti e noti gli aventi avversi collegati all’uso continuativo che riguardano, tra l’altro, apparato cardiocircolatorio, metabolismo glucidico e fosfocalcico. Occorre inoltre sottolineare che i dosaggi che devono essere utilizzati in clinica sono profondamente diversi da composto a composto e variano in ragione della potenza relativa. Un dosaggio di 5 mg di prednisone equivale a 4 mg di metilprednisolone e a circa 20 mg di cortisolo che è la quantità all’incirca prodotta quotidianamente dal surrene. In media l’1% dei soggetti adulti è trattato con cortisonici. La prevalenza di osteoporosi nei pazienti trattati è variabile e dipende da numerosi fattori correlati alla dose, all’introito cumulativo, alla durata del trattamento e alla malattia di base. In linea generale si può affermare che nei pazienti che hanno assunto più di 30 grammi cumulativi di prednisone, la prevalenza di osteoporosi valutata mediante un parametro densitometrico supera il 70 % dei casi. La posologia steroidea è inoltre in grado di influenzare la perdita di massa ossea: in studi longitudinali è stato calcolato che posologie superiori a 30 mg quotidiani in equivalente prednisonico possono indurre perdite di massa ossea che in media sono pari al 7 % in un anno. I corticosteroidi influenzano l’omeostasi scheletrica attraverso numerosi e complessi meccanismi in parte diretti sulle cellule ossee e in parte mediati da interazioni con altri sistemi ormonali. L’azione principale consiste in una soppressione della attività neoformativa ossea da parte delle cellule osteoblastiche. Si è evidenziato inoltre un effetto di incremento del riassorbimento osseo e una interferenza sull’assorbimento intestinale di calcio e sulla sua escrezione urinaria. Le stime indicano una incidenza di nuove fratture vertebrali, in pazienti per lo più donne in post menopausa sottoposti a trattamento steroideo, compresa tra il 6 il 17 % annuo cioè almeno 2-3 volte superiore all’incidenza registrata nei soggetti già ad alto rischio non in trattamento. Le fratture sono meno correlate alla densità ossea rispetto ai soggetti con osteoporosi post menopausale e senile, cioè l’evento traumatico si può verificare anche per densità relativamente conservate ciò perché il farmaco influenza altri aspetti correlati alla resistenza ossea non facilmente misurabili (peggioramento della qualità dell’osso oltre che di quantità). La suscettibilità individuale alla frattura osteoporotica è influenzata da diversi fattori: oltre alla dose cumulativa, hanno importanza, il sesso, lo stato postmenopausale, la durata della esposizione allo steroide, la malattia di base per cui il trattamento è stato iniziato, la massa ossea preesistente. Una caratteristica clinica molto frequente nell’osteoporosi da corticosteroide è la comparsa di fratture vertebrali multiple. Anche l’incidenza di fratture non vertebrali (femore ed altre ossa lunghe) è aumentata. In ambito clinico è comune l’osservazione di pazienti che, a parità di dose e di durata del trattamento steroideo, vanno incontro a quadri di osteoporosi di diversa gravità, a sottolineare l’esistenza di una possibile suscettibilità individuale agli effetti collaterali dei corticosteroidi. Circa le modalità di somministrazione, l’uso dei corticosteroidi a giorni alterni non sembra comportare vantaggi scheletrici rispetto all’impiego quotidiano, mentre l’utilizzo di boli steroidei piuttosto che di un trattamento continuativo ha dimostrato di indurre, a parità di dose cumulativa, una minore perdita di densità scheletrica in una popolazione selezionata. Anche la terapia inalatoria (preparati spray per asma e bronchite cronica) svolge effetti .osteolesivi in maniera dose dipendente. Non esiste in realtà una dose sicuramente priva di effetti indesiderati; un aumento significativo del rischio di frattura si può riscontrare anche a dosaggi compresi tra 5 e 7,5 mg al giorno di prednisone. L’influenza negativa sull’osso avviene prevalentemente a livello del compartimento metabolicamente più attivo e cioè a livello dell’osso trasecolare (vertebre, epifisi delle ossa lunghe) mentre la massa ossea corticale si riduce in misura inferiore e più lentamente. Per quanto riguarda la perdita di massa ossea, l’osteoporosi da steroide ha un caratteristico comportamento bifasico, caratterizzato da una fase rapida nei primi 8-12 mesi di terapia seguita da un periodo in cui la perdita risulta ancora progressiva, ma relativamente più lenta. Appare chiaro da questo comportamento che qualsiasi strategia preventiva, per essere veramente efficace, debba essere messa in atto all’inizio del trattamento steroideo, proprio allo scopo di prevenire la fase di perdita rapida. Una terza importante caratteristica clinica è rappresentata dalla possibile, almeno parziale, reversibilità dell’osteoporosi indotta da steroide Tutte le linee guida delle più importanti società scientifiche raccomandano misure generali da adottare in tutti i pazienti che necessitano di una terapia steroidea superiore a tre mesi. Tali misure prevedono: di sensibilizzare i pazienti per i rischi aggiunti, adottare uno stile di vita che preveda una adeguata attività fisica, purché consentita dalla malattia di base, ridurre il consumo di alcool, abolire il fumo, garantire un adeguato introito di calcio e di vitamina D ricorrendo alla supplementazione farmacologica se ridotte, mantenere il peso corporeo nella norma. È utile inoltre mantenere l’introito di sodio entro i 2 grammi al giorno in quanto una elevata eliminazione urinaria di sodio aumenta la perdita urinaria di calcio. Più specificamente poi si consiglia di utilizzare la dose minima di steroide possibilmente con somministrazione al mattino ed evitando i preparati a maggior durata da azione (composti fluorurati). La correzione dell’ipogonadismo sia negli uomini che nelle donne in particolare sotto i 50 anni è una opzione raccomandata dalla maggior parte delle linee guida. Oggi abbiamo a disposizione potenti presidi farmacologici che sono in grado di attenuare i temibili effetti dei corticosteroidi sullo scheletro. Nella età adulta e senile la scelta terapeutica più utilizzata è quella dell’uso dei bisfosfonati. Alendronato, risedronato e zoledronato si sono dimostrati efficaci nel ridurre gli eventi avversi dello steroide sull’osso: aumento o stabilizzazione della massa ossea, riduzione del rischio di frattura. In casi più gravi può essere indicato l’uso della teriaparatide Le dosi e le modalità di somministrazione sono analoghe a quelle indicate per l’osteoporosi post menopausale e senile. L’uso associato di supplementi di calcio e vitamina D è sempre consigliato.

Conclusioni

In conclusione, si può affermare che tutte le terapie illustrate presentano, pur con particolarità diverse, un significativo effetto sulle fratture da fragilità. I confronti non sono agevoli per le diverse caratteristiche degli studi effettuati (tipo di pazienti, durata, gravità della malattia etc) e quindi non si può attualmente stabilire con certezza una priorità in termini di efficacia tra i vari prodotti. Va ricordato inoltre che tutti i farmaci sopracitati si sono dimostrati attivi sempre in associazione a calcio e vitamina D. Questi due elementi infatti sono considerati indispensabili per una completa azione del farmaco. L’efficacia solo del calcio e della vitamina D in termini di prevenzione delle fratture è inferiore ai farmaci più attivi sul metabolismo scheletrico ma comunque significativa se assunti in modo regolare e soprattutto nei soggetti che ne presentano carenza. In ogni caso la cura dell’osteoporosi apporta i migliori benefici se viene assunta regolarmente, per un periodo di tempo adeguato, in genere per anni, e soprattutto quando il rischio di frattura ossea è particolarmente elevato ossia in presenza di fattori predittori negativi come precedente frattura, bassa massa ossea, età senile e altre condizioni sfavorevoli per l’osso (malattie come l’artrite, terapia cortisonica etc.).  
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